Quante volte abbiamo sentito parlare del buco dell’ozono? E quante di queste volte abbiamo avuto la sensazione di comprendere davvero cosa fosse?
Se dovessimo pensare a qualche concetto che si è radicato in noi dai tempi della scuola potremmo fare diversi esempi: pensiamo ai vassalli, valvassori o valvassini delle lezioni di storia, oppure pensiamo alle barbabietole da zucchero di quelle di geografia. E per le scienze? Almeno una volta nella vita ci sarà capitato di parlare del buco nell’ozono e delle gravi conseguenze climatiche a cui saremmo stati esposti per via di questa condizione.
Il buco nell’ozono, in effetti, indica una lacerazione dello strato atmosferico dell’ozonosfera, dove, per l’appunto, si concentrano le maggiori percentuali di ozono. Ma allora cosa si intende quando si parla di buco? Negli ultimi decenni sono state rilevate lacerazioni in prossimità del continente antartico, dovute principalmente alla presenza di clorofluorocarburi, composti chimici derivanti dai consumi dei frigoriferi e condizionatori di vecchia tipologia.
Nel 1987, al fine di arginare il problema, l’accordo del Protocollo di Montreal regolava l’utilizzo di clorofluorocarburi e halon, un gas usato soprattutto per le sue proprietà anti incendio, nel 2000 si registrò il picco massimo di queste sostanze in Antartide e nel 2014 una diminuzione del 9% di queste sostanze nell’atmosfera. Cinque anni più tardi, nel 2019, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha dichiarato che il buco dell’ozono ha dimensioni fluttuanti, tende ad aprirsi durante l’estate (tra agosto e ottobre) per poi chiudersi durante i mesi invernali.
Una notizia sicuramente positiva, se non fosse che gli scienziati hanno da poco rilevato una grave problematica: nel settembre di quest’anno, infatti, il buco nell’ozono ha raggiunto dimensioni mai registrare prima, attestandosi su una superficie di circa 26 milioni di chilometri quadrati, corrispondenti a 3 volte la superficie del Brasile.
Ma a cosa è dovuta questa condizione? Secondo gli studiosi all’allargamento della lacerazione hanno contribuito numerosi fattori. Secondo alcuni l’eruzione del vulcano Tonga risalente al gennaio del 2022 potrebbe aver provocato la formazione di vapore acqueo, che a sua volta “potrebbe aver portato a una maggiore formazione di nubi stratosferiche polari, dove i clorofluorocarburi (CFC) possono reagire e accelerare l’impoverimento dell’ozono“, hanno dichiarato dall’ESA.
Ma non solo, secondo altri la causa principale dell’enorme buco nell’ozono potrebbe essere la presenza di una forte banda di vento che scorre intorno all’area antartica. “Questa forte banda di vento è una conseguenza diretta della rotazione terrestre e delle forti differenze di temperatura tra latitudini polari e moderate“, affermano gli scienziati. Tale massa agisce da barriera negli strati più alti dell’atmosfera, rendendo impossibile lo scambio tra masse d’aria che dunque rimangono isolate, congelandosi.
Se dunque prima si pensava che le lacerazioni nell’ozono potessero richiudersi tra il 2040 e il 2066, tali dichiarazioni dell’ONU devono essere riviste. La buona notizia è che il buco registrato a settembre possa ridursi di dimensione entro il 2050, ma per gli scienziati è quasi impossibile che possa richiudersi del tutto.