Per oltre trent’anni la popolazione del Veneto è stata esposta ad acqua contaminata da Pfas. Uno studio ha confermato il nesso tra la contaminazione e l’aumento dell’indice di mortalità
Quando si parla di area rossa, o di zona rossa, la mente richiama immediatamente il periodo clou della pandemia, quando in alcune parti dell’Italia il rischio di contagio, e dunque di malattia, era altissimo, e di grave entità. E questo è stato ricordato quotidianamente in tutti i telegiornali e su tutti i canali mediatici. Meno nota invece è l’area rossa che negli ultimi trent’anni ha delimitato una porzione del Veneto, tra le province di Padova, Vicenza e Verona.
In questo caso non si tratta di rischio di contagio, ma di contaminazione, processo non meno rischioso. Nello specifico da Pfas. Si tratta di composti poli e perfluorurati, sostanze chimiche diffuse dagli anni Cinquanta del Novecento in campo industriale per rendere idrorepellenti e oleorepellenti i tessuti, la carta ed altri materiali. Con lo svantaggio che gli Pfas sono estremamente persistenti nell’ambiente ed ad alto rischio di contaminazione. Da decenni gruppi ambientalisti si battono per eliminare questa sostanza dai processi di produzione, ma con risultati limitati.
Allo stesso tempo le evidenze scientifiche che avallano i rischi sulla salute dell’essere umano continuano a stratificarsi. Fino a quando nel 2023 finalmente lo IARC di Lione, su commissione dell’OMS, ha condotto una ricerca che ha dichiarato gli Pfas “cancerogeni certi per l’uomo”. La correlazione con gli effetti è ancora in corso di studio. Tuttavia sono molto probabili i nessi causali con i tumori ai reni ed ai testicoli. Ed anche con i problemi di sviluppo nei bambini.
Acqua contaminata da Pfas, il caso del Veneto
A quanto pare dagli anni Ottanta del Novecento le province di Padova, Verona e Vicenza sono diventate aree rosse per la contaminazione da Pfas. La popolazione locale ha ricevuto le informazioni necessarie con il ritardo necessario ad aumentare sensibilmente l’indice di mortalità nella zona.
Una ricerca recente, condotta dai ricercatori dell’Università di Padova, ha studiato i dati del Registro Tumori dell’Emilia Romagna e del Servizio statistico dell’Istituto Superiore di Sanità. Con il risultato che i decessi attesi in questi anni, nelle aree interessate dalla contaminazione da Pfas, sono stati inferiori a quelli effettivamente avvenuti.
La correlazione con i perfluorurati sembra piuttosto evidente ai ricercatori. Ed a veicolare la contaminazione è l’elemento che si ingerisce maggiormente ogni giorno: l’acqua. Dopo che è scoppiato lo scandalo sono state avviate e parzialmente portate a termine delle operazioni di bonifica sugli acquedotti, che includono dei filtri per purificare l’acqua.
Tuttavia alcune delle sostanze chimiche incriminate sono talmente sottili da sfuggire al blocco dei filtri. La soluzione è una sola. Come dicono le “mamme no Pfas”, associazione molto attiva, “sosteniamo con forza la necessità di bandire la produzione e l’utilizzo delle PFAS, come intera classe di sostanze, a livello globale”.